Il Pci è morto da tempo, eppure l’Italia tanto bene non sta. Così sulla quarta di copertina, Lucio Magri sintetizza il senso del suo saggio, “Il sarto di Ulm”. Una sferzata micidiale che potremmo allargare al movimento internazionale comunista e alle condizioni di salute del mondo e che, devo ammettere, ho sempre avuto in testa dal momento che abbiamo cominciato a lavorare (costruire il progetto e i finanziamenti) per quella ricerca che poi, Stefano, Francesco e Pietro hanno realizzato in “L’utopia della base”.
Sì! Lo ammetto, per me l’aspetto principale di quella nostra storia (operaista certamente) è il rapporto con il Pci. E siccome non si arriva a sciogliere questo partito nel 1990/91 per una improvvisazione del gruppo dirigente di allora, va riflettuto sulle ragioni che hanno prodotto quell’esito, ragioni che vanno ricercate nel periodo precedente (anni ‘70 e ‘80), e che trovano le loro premesse, nel bene e nel male, in qui formidabili anni ‘60, nei quali anche noi, con le nostre azioni e nel nostro piccolo, abbiamo contribuito (si contribuisce anche perdendo le battaglie) a determinare orientamenti, rapporti, gruppi dirigenti che hanno costituito quel contesto.
Ha ragione Nino Muzzi quando dice che, pur senza conoscere all’epoca la fondazione teorica dell’operaismo (è un po’ esagerato perché dei Quaderni rossi i nostri dirigenti, Nino Muzzi e Renzo Busini ce ne parlavano e, se non ricordo male, Silvano Tanzini era addirittura abbonato a Classe operaia), sicuramente le nostre posizioni erano abbondantemente dentro quell’orizzonte. Anch’io ho letto “Noi operaisti” (Derive Approdi, 2009) poco prima che fosse concluso “L’utopia della base” e, poi, ne ho ritrovato il senso nella bella prefazione che ha voluto regalarci Mario Tronti.
Ciò premesso, la torsione che Nino dà alla sua rilettura della nostra esperienza non mi convince. Intendiamoci “vera” e legittima (suggerisco di rileggere la trascrizione della mia comunicazione sul Collettivo operaio, roiprodotta qui in calce, ad un convegno del Pci a Poggibonsi nel 1982 - tempi non sospetti - per ritrovarvi molte cose di cui parla Nino), ma il senso complessivo ne rimane parziale e piegato ad un punto di vista presente, ed anche egemonico per certi periodi, ma non esclusivo. L’operaismo di Nino, mi pare, è più quello di Lotta continua, quello del salario come variabile indipendente e quello del salario sociale o quello dell’autoriduzione delle tariffe e della disobbedienza civile; il mio, ma non solo, era quello dei consigli di fabbrica che si fanno Stato, era quello della presa del potere e del leniniano “Stato e rivoluzione”. Perciò il cruccio costante sul “partito” e, specificamente, sul Pci.
Di operaismi ce ne sono diversi: ri-leggo, sollecitato da Nino, che Tronti parla del rapporto tra operaismo e bolscevismo e rileva che «nemmeno il primo operaismo – Quaderni rossi + Classe operaia ebbe questo segno come dominante né come maggioritario». (“Noi operaisti”, p. 13).E che piuttosto era un suo personale problema. Nel Collettivo operaio, invece, a dispetto dell’egemonia che periodicamente Nino esercitava con grande autorevolezza, il rapporto tra operaismo e comunismo (da intendersi prevalentemente Pci) era ben presente e radicato; non è per caso, come ricorda Nino alla fine della sua riflessione, che, dal Collettivo, «avvenne il passaggio maggioritariamente nelle file del PDUP per il comunismo».Forse non è inutile ricordare che questo riguardò principalmente proprio quegli operai che erano stati costretti a lasciare il Pci e che, nonostante i traumi e gli abbandoni, che non mancarono, ritenevano logico quel percorso e, sia pure non vincenti, proseguivano quella battaglia che li aveva portati in precedenza a “costruire” il Collettivo operaio. Anche qui mi fa gioco un'altra riflessione di Tronti sulla esperienza dell’operaismo, trasportata nel nostro collettivo: tra qualcuno di noi, tra gli operai, si pensava che «da quella full immersion in una esperienza di classe, dovesse emergere, e formarsi, e costruirsi, un gruppo dirigente, un modello di ceto politico alternativo a quello del movimento operaio, cosiddetto ufficiale. Formarsi qui, per poi esprimersi lì» (“Noi operaisti”, p. 20).
Anche questa è una lettura operaista della nostra esperienza, ma diversa. Certo ci farebbe bene continuare il confronto – è giusta la proposta di Nino di farne occasione per presentare il saggio di Tronti – non fine a se stesso, ma preoccupati dello stato di salute dell’Italia e del mondo per capire se e dove abbiamo sbagliato, non solo noi, anzi, soprattutto chi è stato più importante di noi e ha avuto maggiori responsabilità.
Marx (benedetti Nino e Renzo che con tanta pazienza e affetto ce l’hanno fatto conoscere, oltre a Lenin) ci ha spiegato che con l’affermarsi dell’abbondanza si sarebbe raggiunto un punto in cui il lavoro morto avrebbe dominato il lavoro vivo e la ricchezza si sarebbe misurata non con il tempo di lavoro, ma con il tempo liberato; quindi il rapporto di lavoro salariato non avrebbe trovato più le condizioni della propria riproducibilità. Se per caso avesse davvero ragione Marx, forse è arrivato il momento di impiegare risorse umane, intellettuali e di movimento, per «abolire lo stato di cose presenti» che impedisce all’umanità di affrontare positivamente questi problemi, magari impostando una «alleanza generale tra [le persone che contemporaneamente sono] produttori e consumatori» e, magari, lo chiamiamo comunismo… oppure no?
Mauro Lenzi