Per avere un’idea della fondazione teorica dell’operaismo e degli anni in cui nacque e dei motivi della sua breve vita, basta leggere il saggio di Tronti: Noi operaisti, uscito nel 2009.
Di quella fondazione teorica noi non sapevamo niente all’epoca del Collettivo Operaio, ma leggendo quelle pagine oggi non è difficile riconoscervi ciò che fu la nostra esperienza politica.*
Se gli studiosi attribuiscono a Marx varie “rotture epistemologiche” e indagano fra le diverse opere, come “I manoscritti economico-filosofici” o i “Grundrisse” per trovarvi un seme da cui sarebbe potuto spuntare un diverso pensiero politico rispetto a quello che conosciamo, è perché si considera l’esperienza del socialismo realizzato come un generale fallimento.
Anche noi, militanti del PCI, all’epoca conoscemmo una nostra “rottura epistemologica”, ma non leggendo testi particolari, bensì riflettendo sulla pratica politica del PCI in una zona, la Valdelsa, in cui era assolutamente maggioritario e al contempo assolutamente prudente, sia a livello di governo locale che a livello di lotte operaie.
Questa prudenza non veniva più condivisa dalla nuova classe operaia degli anni sessanta che rispetto a quella tradizionale degli anni del dopoguerra era più composita, avendo ricevuto gli apporti in parte dal Sud, in parte dalle campagne, ed era anche meno impaurita, costatando ogni giorno che il lavoro produceva ricchezza e benessere. Insomma avevamo di fronte operai che non volevano invecchiare e morire nella stessa fabbrica: era iniziata all'epoca del soggettivismo operaio e della sua autonomia se non dal Capitale almeno dalla singola fabbrica. L'operaio che proveniva dall'esperienza degli anni cinquanta dominata dalla paura di perdere il lavoro stava passando la mano ad un operaio meno minacciato e più consapevole della propria insostituibilità nel processo produttivo. A questo proposito fu emblematica una scena avvenuta in una vetreria, il cui padrone aveva dato prova di grandi capacità imprenditoriali, quando un operaio più anziano disse che avrebbe voluto invecchiare volentieri sotto la direzione di quell'imprenditore e un altro gli rispose che, bravo o non bravo il padrone, senza "questa" i bicchieri non escono, e mostrò una mano tutta logorata e scavata dalla canna del vetraio.
Quella fu la nostra rottura epistemologica: il discorso della mano di Pietrino, come si chiamava quel vetraio che invece in seguito fu molto ostile al Collettivo Operaio. Questa ostilità non deve restare nascosta, quasi censurata: bisogna anzi dire che molti operai che avevano fatto lotte avanzate non scelsero la militanza nel Collettivo, pensando che si trattasse di un gruppuscolo e che fosse visceralmente schierato contro il PCI, cose, ambedue, non vere.
Noi non ci collocavamo a livello di partito o di gruppuscolo, noi dicevamo di essere il lievito della classe operaia e che la classe doveva fare politica in prima persona, soppiantando la vecchia divisione fra politica e sindacato. Eravamo nell’ottica di quello che Tronti chiama “il partito di fabbrica”. Uno dei rimproveri che ci veniva mosso dal PCI anche quando eravamo iscritti era quello di perdere di vista gli alleati di classe: i contadini e il medio ceto.
Se questo era vero dal punto di vista della militanza (non eravamo presenti nelle campagne), non era vero dal punto di vista della teoria politica. In effetti noi volevamo uscire dalla fabbrica, affrontare le tematiche sociali, ma volevamo farlo come fabbrica, mentre invece il partito politico raccoglieva in sé operai e non operai, trasformando tutti in cittadini di sinistra, e questo per noi rappresentava la grande mistificazione ideologica, significava togliere l’iniziativa di mano all’operaio per passarla in mano al funzionario di partito.
All’epoca si parlava di corsa a staffetta della classe operaia, che correva e correva con la staffetta in mano per poi consegnarla al partito politico sulle soglie del Parlamento.
“Voi diteci i vostri problemi e le vostre richieste e noi li porteremo in Parlamento”. Con questa frase all’inizio degli anni sessanta andavamo nelle fabbriche come FGCI, accompagnando il dirigente di Federazione e raccogliendo la voce dei giovani operai delle piccole aziende. Questa fase pochi anni dopo sarebbe suonata quasi come una presa in giro alle orecchie della classe operaia.
Però l’operaismo non aveva strumenti. La prima rivoluzione che dovevamo compiere era quella del linguaggio, cioè della riappropriazione di un linguaggio di classe da parte della classe. Il movimento operaio aveva alle spalle cinquant’anni di divisione fra sindacale e politico e ogni volta che sorgeva un problema in fabbrica veniva riformulato in termini sindacalesi o politichesi. Il carattere tendenzialmente globale della richiesta operaia si scontrava spesso con la riformulazione sindacale o politica, che faceva dire ai Cahiers de Mai: “I sindacati e i partiti tagliano i problemi a fette”, sminuzzano analiticamente ogni richiesta operaia e non colgono mai il malessere vero che serpeggia in fabbrica.
Quindi si poneva sia il compito storico di “leggere” la volontà della classe e di “esprimerla” poi nel suo linguaggio specifico. Ci faceva senso sentire Togliatti che diceva: “Sotto l’egida dei monopoli”, ma ci faceva ancora più senso sentirlo ripetere dagli operai in sezione o in fabbrica.
A questo punto si pose anche il problema di come si registra e come si verifica la volontà della classe, una problematica che l’esperienza storica successiva avrebbe chiarito definitivamente, ma che già allora si profilava nelle sue due linee essenziali: se, cioè, la democrazia in fabbrica è rappresentata dal voto nella scatola di cartone all’uscita del turno di lavoro o se invece è rappresentata da figure simboliche che sanno leggere la volontà operaia. I partiti leninisti avevano inventato il rivoluzionario di professione, una figura astratta, risultato di un ammaestramento dottrinario spesso esterno alla classe operaia, una sorta di scuola di partito che “toglieva” il compagno di base dal momento dell’agitazione per elevarlo al livello della dirigenza. In questo itinerario lui perdeva il contatto con la fabbrica e il linguaggio operaio e diventava una figura istituzionale. L’operaismo invece inventò dei leader simbolici che si formavano via via nelle lotte e che abbisognavano di appoggio esterno per portarle avanti, per resistere un minuto più del padrone, che abbisognavano di alleanze intellettuali, di strutture di servizio che a nostro parere dovevano essere fornite di volta in volta dalla intellighenzia in formazione: il movimento studentesco. Qui nasce tutta la tematica del rapporto fra operai e studenti che nel nostro caso si risolse sempre in un appoggio studentesco alle rivendicazioni operaie, mentre le tematiche della Scuola non entrarono mai nel dibattito operaio.
E non mancarono i momenti in cui, al di là della volontà dei partiti istituzionali e dei sindacati, gli studenti appoggiarono le lotte operaie, fra cui una delle più famose fu la lotta dei minatori dell’Amiata scesi a manifestare in Valdelsa e a Siena.
Oggi sappiamo che la democrazia della scatola di cartone farà sempre vincere i Marchionne, allora lo intuivamo soltanto.
Ma cosa esprimeva la classe? C’era ancora tutto in nuce quello che pochi anni dopo sarebbe stato racchiuso nella formula: “salario come variabile indipendente” o, con linguaggio meno economicistico, salario sociale.
La classe marciava verso il salario sociale, con il punto unico di contingenza che sarebbe stato poi demonizzato come causa di appiattimento delle differenze retributive e quindi come disincentivo alla produttività aziendale.
La classe marciava verso il salario differito, la pensione, intesa soprattutto nel suo aspetto remunerativo e non contributivo, come se si trattasse della semplice riscossione di un’assicurazione privata.
La classe marciava verso l’egualitarismo con un occhio alle differenze di genere: eliminava le gabbie salariali, ma manteneva la proibizione del turno di notte per le donne.
La classe marciava verso il lavoro come diritto inalienabile, contro ogni forma di precarizzazione e di stagionalità, per questo rifiutava anche i contratti part-time, puntando invece sulla riduzione d’orario per tutti.
La classe marciava verso l’autoriduzione delle tariffe e la disobbedienza civile.
La classe marciava verso l’estensione a tutte le aziende dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Tutte queste tappe ideali o conquiste parziali sono state via via rimangiate nel ventennio successivo: la donna fa il turno di notte, il salario è una variabile dipendente, sempre più legato alle sorti della singola azienda, la scala mobile è stata sterilizzata, le pensioni saranno solo contributive, l’orario di lavoro ha subito il massimo di flessibilità, il lavoro è totalmente precarizzato, lo Statuto verrà certamente abolito. Aspettiamo la reintroduzione delle gabbie salariali.
Se questo era il quadro generale di riferimento sia rispetto alle lotte locali che rispetto alle lotte nazionali, bisogna dire che il Collettivo Operaio nel corso della propria esistenza ebbe un forte momento operaistico iniziale e poi, avendo perduto la dirigenza sindacale, subì dall’esterno l’isolamento e dall’interno il ricatto. I partiti politici e il Sindacato non intrattennero nessun rapporto con il Collettivo, nessun riconoscimento gli venne dato, neppure quello dell’onestà politica. Si assisteva ad un carrierismo sfrenato da parte di arrampicatori sociali dentro le strutture dei partiti operai e dell’amministrazione locale, ma la demonizzazione restava quella del Collettivo.
D’altra parte crebbe al suo interno il ricatto partitico, la spinta ad aggregarsi ad una formazione nuova di carattere nazionale o a rientrare nelle file dei partiti tradizionali, pena l’estinzione lenta. Così avvenne il passaggio maggioritariamente nelle file del PDUP per il Comunismo.
L’operaismo a livello nazionale era finito, tutti parlavano del partito rivoluzionario che doveva nascere e che non nacque mai.
Nino Muzzi
* Pertanto auspico un convegno con Tronti a Colle Val d’Elsa proprio per presentare quel suo saggio, magari usando un linguaggio un po’ meno intellettuale e qualche esempio storico in più.