Quando Stefano Santini, Mauro Lenzi e gli altri amici di Colle mi parlarono del progetto di ricerca che poi ha prodotto L’utopia della base, ormai diversi anni fa, mi sembrò un’impresa che valeva senza dubbio la pena di intraprendere sia per l’importanza intrinseca delle “microstorie” e del contesto specifico di Colle, così originale e diverso rispetto a quello di Siena, sia perché la riflessione sull’Operaismo toccava direttamente una serie di esperienze e snodi storici importanti per il Centro Studi Franco Fortini, di cui faccio parte. Più in generale, poi, l’iniziativa si poneva (e si pone) in controtendenza rispetto all’operazione mediatica e ideologica che con pieno successo ha visto nel corso degli ultimi anni l’appiattimento e la cancellazione dell’insieme delle spinte di emancipazione, complesse e multiformi, che nel nostro paese avevano coinvolto più di una generazione tra i Sessanta ed i Settanta, brutalmente e interessatamente chiusi, questi ultimi, nell’etichetta liquidatrice di “anni di piombo”. A questo punto accenna Mario Tronti nella sua Prefazione, là dove parla della “demonizzazione che viene ogni giorno proposta di quel tempo, come fosse l’origine dei nostri mali di oggi” (p. 12); e sono d’accordo con lui, ma del resto niente di nuovo: è l’operazione che con la Storia fanno sempre i vincitori.
Nonostante queste premesse, debbo confessare che non ero sicuro che il progetto sarebbe andato in porto. Spero non me ne vorranno gli amici autori del libro, se accenno a questo mio dubbio, o meglio timore, per fortuna rivelatosi errato. Esso si lega alle impressioni da me provate nelle occasioni in cui, a Colle, nelle riunioni dell’Associazione Amici di Romano Bilenchi, era venuto fuori il discorso sugli anni ’70, sul Collettivo e dintorni, Collettivo la cui esperienza riemergeva spesso nelle discussioni. Ricordo, in particolare, un incontro organizzato insieme a Severino Saccardi, su don Auro Giubbolini, figura che nel libro occupa giustamente un suo spazio: fin dagli incontri di preparazione di quell’evento, fu chiaro che sul prete di Borgatello c’erano opinioni molto diverse, in città, e più in generale che il dibattito su quegli anni divideva in modo ancora piuttosto aspro non solo i membri dell’Associazione, in senso generazionale, ma l’ambito della Sinistra. La divisione non era semplicemente tra cattolici ortodossi e (si diceva un tempo) del dissenso, ma in primo luogo tra differenti posizioni, a sinistra, all’interno di gruppi militanti dell’epoca i cui protagonisti erano ancora presenti sulla scena culturale e politica. A distanza di venti anni e più, gli animi ancora si accendevano nell’interpretare la figura di don Auro e le vicende legate alla sua “eresia”; ed un fenomeno analogo si verificò anche in un’altra occasione, quando presentammo il libro di Marcello Flores sul ’56: passaggio storico fondamentale, anch’esso richiamato da Mario Tronti nella Prefazione; anche allora l’iniziativa per breve tempo rinfocolò antiche divisioni.
Ebbene, da quelle discussioni e dal loro seguito mi ero fatto l’idea che a Colle gli itinerari individuali e le vicende collettive del periodo preso in esame dal progetto costituissero una materia tuttora controversa, non archiviata bensì in qualche modo ancora incandescente, e che gli strascichi delle polemiche di un tempo non si fossero del tutto spenti, anzi potessero far riemergere risentimenti covati a lungo e sempre latenti. Persino nella circostanza della prima Guerra del Golfo ebbi modo a Colle di ascoltare espressioni che rivangavano in terreni remoti ed avevano a che fare con un vissuto lacerato, con esperienze sofferte e non ancora del tutto metabolizzate, le cui origini riportavano ai passaggi più drammatici nell’esistenza dei movimenti, del sindacato e del Partito Comunista, alla sua evoluzione o involuzione. A dire il vero, mi è sempre piaciuta molto la reattività e anche la vis polemica degli amici colligiani; però mi sembrava che nel modo di affrontare quei nodi ci fosse qualcosa di non risolto, un grumo che si traduceva in una sorta di litigiosa inconcludenza, in un ribattere all’infinito su torti e ragioni, senza via d’uscita; un ostacolo insomma ad una ricognizione storica distaccata dai sentimenti e dalle vicende personali.
Mi sbagliavo: era sì vero che gli anni del Collettivo costituivano ancora una questione non chiusa, ma evidentemente questo era, è stato, un elemento positivo ai fini del libro, che si offre oggi ad una molteplicità di spunti, di approfondimenti, di aggiornamenti e di conferme su quel tratto così decisivo del Novecento, non solo in quel di Colle. Tra queste, la conferma di quale fosse il punto dolente, nevralgico, a Colle come altrove, dei movimenti “dal basso” di cui fece parte, con giusto orgoglio, il Collettivo Operaio: il rapporto con il PCI, con quel che esso rappresentava, quindi con il passato prossimo ed il presente (essendo il Partito al governo nel territorio), ma anche con le pratiche politiche e burocratiche, e soprattutto con le interpretazioni della storia in atto che lo hanno progressivamente assimilato al quadro politico italiano, con tutte le sue arretratezze, miserie e debolezze, in primo luogo di ordine culturale, sino alla subordinazione ideologica che ha fatto scambiare il riformismo con il liberismo. Su questo punto il discorso sarebbe lungo, anche perché andrebbe affrontato entro i tempi lunghi della storia colligiana otto-novecentesca, che come dicevo all’inizio è molto diversa da quella del resto della provincia e di Siena in particolare. Discorso lungo, ed anche amaro – ne abbiamo parlato tante volte con Bruno Schacherl, a Colle e a Firenze – perché quella del Pci non è stata una semplice sconfitta, ma una sorta di liquidazione e di resa senza onore, non meno lacerante per l’esser stata accompagnata dalla sparizione e dal penoso frazionamento della cosiddetta sinistra Extraparlamentare, che dei fermenti come quelli del Collettivo avrebbe dovuto essere l’erede.
A proposito di discussioni. È riportata nel libro una pagina del diario di Silvano Tanzini datata aprile 1968 in cui si racconta di una riunione su un progetto di pubblicazione: dopo cinque ore di discussione, con il registratore aperto, non si era arrivati a niente, e annota Silvano:
il registratore era fermo da un pezzo […] e alla fine eravamo, tutti quanti, ubriachi di parole […] riascoltare quel nastro sarà interessante e forse utile. Avremo la conferma di quanto sia profonda la nostra ignoranza, di quanto siano gravi le nostre frustrazioni, di quanto siano ambigui i rapporti che ci uniscono, di quanto sia paralizzante la nostra discussione. (112).
Riconosco in questo brano l’accento di Silvano, l’impronta del suo pessimismo di lungo periodo. «Sarà interessante e forse utile…»: in questo distanziamento c’è l’ironia di chi conosce molte sconfitte e diffida delle troppe parole; ma in controluce c’è anche, o così mi pare, un fondo materialistico ben più radicale del radicalismo delle “avanguardie”. Nelle sue parole lo sguardo dal basso si concretizza in un disincanto impietoso. Ma si potrebbe dire che il libro, in un certo senso, raccoglie appunto quell’annotazione (sarà interessante e forse utile) e dimostra però, al tempo stesso, quanti e quali fili tenessero insieme l’ambito locale ed il contesto più ampio, nazionale e internazionale, secondo una prospettiva essenziale per dare un senso a ricerche di questo genere, quale non è frequente incontrare in tempi di specialismo.
Quindi, proprio il perdurare nei singoli di domande ancora sentite come inevase e urgenti, l’interrogarsi sul senso di esperienze che avevano segnato passaggi sociali ed esistenziali di forti risonanze, ha fatto sì che nascesse un libro vivo e stimolante, e tanto più ora che la “questione della democrazia” ha assunto nuove forme, rispetto alle quali i partiti che conosciamo finora sono più o meno tutti, a destra e a sinistra, degli zombies, dei morti viventi. L’utopia della base capita, insomma, al momento giusto. Il ricorso alle interviste, inoltre, è del tutto in linea con i più recenti lavori sull’operaismo e di quel particolare momento - specifico del nostro paese – il metodo qui impiegato rappresenta esso stesso una eredità feconda, non sterilizzata. Il dare spazio alle persone coinvolte nella storia e preistoria del Collettivo colligiano, e pertanto l’emergere di storie e biografie legate al retroterra storico, da una parte, dall’altra i riscontri sulla composizione sociale del territorio mi sembrano due punti di forza del libro; ma su questo, come dicevo, è opportuno che si pronuncino gli addetti.
C’è però un altro punto di forza del libro, forse più intimo; un elemento che ha la capacità di fornire un valore aggiunto allo sforzo dei curatori, di dargli un qualcosa di speciale ed esclusivo. Mi riferisco proprio al diario, appena citato, di Silvano Tanzini. Il libro ruota intorno a quel diario come un suo perno interno per più ragioni. L’Introduzione lo attesta sin dall’inizio, affermando che “è anche grazie al suo [di Silvano Tanzini] contributo se la nostra opera si è potuta realizzare” (p. 24). Io però, personalmente, mi sentirei di andare oltre questo dovuto riconoscimento: sì certo, come ricorda sempre l’Introduzione, nei suoi ultimi anni Silvano si dedicò intensamente alle ricerche di archivio, allo studio dei documenti e delle testimonianze; perciò è anche grazie al suo lavoro se oggi L’utopia della base, questo libro davvero collettivo, è giunto in porto. Ma in realtà è il diario stesso ad offrire uno straordinario spaccato di quegli anni, perché lo fa in presa diretta, sul momento, ma anche, come dicevo, in una prospettiva dal basso ed una lucidità senza scampo. Come già nell’esempio citato, non contano solo i contenuti ma anche il modo in cui i fatti sono osservati: l’antiretorica di Silvano, il suo sguardo netto, l’insofferenza per l’arroganza, la concretezza, erano il modo che egli aveva di tradurre una passione politica profonda, intesa questa come aspirazione - sempre negata - all’eguaglianza reale tra gli uomini. Di testimonianze se ne possono trovare, e belle e utilissime, in molti libri; ma qui c’è qualcos’altro. Non vuole essere, quello di Silvano, un “contributo” analitico o oggettivo su quel che va accadendo: è un diario di bordo che nasce dall’esigenza di essere prima di tutto in chiaro con se stesso, mai rinunciando ad una visione “di parte”. Le ricostruzioni sono altro: qui ascoltiamo la voce di una coscienza e seguiamo un itinerario di ricerca e di vita. Un esempio, e non ce ne sono tanti, a guardarsi intorno.
Tipico è il modo con cui l’autore del diario non si fa incantare dal fascino dei nomi, da collaudati oratori e da parole ben scelte. Nel gennaio 1971 ad un convegno unitario di Potere operaio e Manifesto osserva che «I discorsi meno interessanti, anche se ben fatti, pieni di belle frasi, di cifre e slogan, eran quelli di carattere generale pronunciati dai vari Pintor, Magri, Magnaghi…»
È solo uno dei tanti esempi di questo libro nel libro, che nel suo essere in controcanto e quasi senza saperlo, apre molteplici strade all’interpretazione di quegli anni. E sbaglierò di nuovo, per concludere, ma credo che se il progetto è andato a buon fine, è anche perché ha in qualche modo assorbito, dopo la scomparsa di Silvano, la sua energia, il suo accanimento; perché ne ha raccolto l’eredità. Non era scontato, ed il fatto che siano stati dei giovani a assumerne il compito, è particolarmente significativo ed è infine un atto di coraggio intellettuale, in un momento in cui gli intellettuali stanno sui media a pontificare sul niente o tacciono, lontani anni-luce dai cambiamenti in atto nella società, dai luoghi in cui si spendono, fuori scena, le esistenze della gente. Qualcuno dirà che c’è contraddizione tra il disincanto ed il fondo pessimistico di Silvano Tanzini – che ben emerge dai suoi racconti - e l’accanimento, appunto, con cui egli conduceva le sue ricerche, decostruiva e ricostruiva le vicende politiche di questo o quel momento. Perché darsi tanta pena? Lo sappiamo e l’ho già detto, la storia la fanno sempre i vincitori.
Silvano lo sapeva meglio e da più tempo di noi. Ma proprio per questo, in fondo, era necessario dar voce agli sconfitti, ai “radiati”, agli esiliati. In questo il titolo del libro fa corpo, sbarazzandosi dei luoghi comuni, con una lunga tradizione carsica, quella di cui, insieme ad altri, ha parlato Hannah Arendt per esempio nell’Introduzione a Tra passato e futuro, nelle pagine dedicate all’eredità della Resistenza europea e al «tesoro antichissimo, che appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, e quindi scompare di nuovo celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, come una fata morgana». Sarà interessante e forse utile non dimenticarsene.
Luca Lenzini (Centro Studi Franco Fortini)